De Lubac e la modernità:

una prospettiva teologica

Pubblicato in Per la Filosofia, n.18 (anno VII), gen/apr 1990, pp. 17/30.

1. Legittimità del tema

Henri de Lubac, nonostante egli sia una delle maggiori personalità teologiche del nostro secolo e uno dei maggiori artefici di quel rinnovamento nella tradizione che fu il Concilio Vaticano Il, non ha mai amato attribuirsi il titolo di teologo. Egli ha piuttosto concepito il suo compito all'interno della Chiesa, da lui amata più di ogni punto di vista particolare, come una riscoperta e una riattualizzazione di tesi e tematiche essenziali al Cristianesimo stesso, e trascurate o equivocate dalla teologia dei secoli moderni.

A maggior ragione egli rifiuterebbe di classificarsi come interprete della modernità, argomento che in effetti non ha mai affrontato in quanto tale. E tuttavia, come è innegabile che esista una teologia delubachiana, così è possibile enucleare dall'insieme della sua opera, e in particolare da alcuni testi dedicati specificamente all'epoca moderna 1, un giudizio sufficientemente ampio ed articolato da rendere legittimo parlare di interpretazione, o almeno di valutazione ragionata del moderno. La quale, se non può competere sullo stesso piano con altre, più organiche interpretazioni, presenta l'indubbio merito di aprire ad una prospettiva ingiustamente trascurata da altri, ossia quella della incidenza del teologico sullo sviluppo della modernità.

2. Coordinate metodologiche

Dando un primo sguardo d'insieme alla considerazione della modernità in de Lubac, troviamo che essa converge con il tipo di interpretazione prevalente nel nostro secolo in campo cattolico, almeno quanto alla valutazione della complessità del fenomeno. Mentre le ricostruzioni predominanti nell'Ottocento, fossero cattolico reazionarie (pensiamo a de Maistre, a de Bonald, a molto neotomismo) o laico immanentistiche (Hegel, Comte, Marx), concordavano nel vedere nella modernità un fenomeno intrinsecamente unitario, negativo per gli uni, positivo, almeno come esito, per gli altri, nuove interpretazioni andavano sviluppandosi, più conscie della complessità del moderno. Già nel secolo scorso, in ambito cattolico, emergevano interpretazioni che distinguevano valori positivi e valori negativi. Pensiamo al Rosmini, per il quale la modernità ha apportato, rispetto all'oggettivismo medioevale, una miglior consapevolezza della soggettività; o al Newman, che ha cercato di assimilare quanto di integrabile vi era nella tematica gnoseologica e storica del pensiero moderno, o a come molta teologia tedesca ottocentesca, in primis J.A. Möhler, ha cercato nelle categorie organicistico totalizzanti dell'idealismo un efficace strumento per ripensare il Cristianesimo in modo più conforme alla sua stessa essenza. Proprio questa impostazione, tesa a distinguere, ha finito col prevalere nel nostro secolo, venendo fatta propria anche da esponenti di quel neotomismo, che più tagliente era stato verso gli errori moderni: lo stesso Maritain, autore dei più ampi e originali studi sulla modernità in ambito neotomista, ha riconosciuto che, pur all'interno di modalità complessive inaccettabili, di matrice soggettivistica e immanentistica, la civiltà moderna ha perseguito valori in sé positivi, quali la autonomia dell'ordine naturale (e a livello gnoseologico del sapere filosofico scientifico, ad esso relativo) e la conseguente autonomia della sfera politica, il valore della giustizia sociale, quello della femminilità, senza contare la portata intrinsecamente benefica del progresso tecnico2. Tuttavia Maritain rimane comunque legato ad un’immagine unitaria del moderno: gli elementi positivi sono stati perseguiti dai medesimi pensatori, o meglio dalla medesima ed unica corrente di pensiero, che li ha però declinati in un contesto erroneo. Il positivo e il negativo insomma risultano interni ad un medesimo movimento, ad un identico processo storico culturale, concepito poi come snodantesi secondo una logica intrinseca che ne poteva far presagire fin dagli inizi i successivi sviluppi3. Dall'analisi di Maritain infine il teologico non è escluso4, ma è sempre visto in subordine al filosofico. La storia della filosofia, e della cultura profana in genere, ha una sua propria logica di sviluppo, che trascina con sé l'evoluzione delle concezioni teologiche: tale sembra essere l'implicito presupposto che orienta l'interpretazione del filosofo francese.

Per de Lubac invece la modernità è un fenomeno complesso, non solo nel senso di ambivalente, ma anche nel senso che è possibile, entro certi limiti, tracciare una linea di demarcazione storico concreta tra diverse modernità incarnate da personalità e correnti, culturali e reali, ben identificabili. Strettamente connessa a questa idea è la sottolineatura dell'imprevedibilità del procedere storico. Infine il teologico assume una importanza decisiva rispetto al filosofico.

In tutto ciò vediamo giocarsi alcune categorie fondamentali in de Lubac. Anzitutto la attenzione alla singolarità storica, indeducibile da leggi generali5. Questa attenzione al dato positivo storíco, polemica contro una speculatività astrattamente universalizzante, è poi connessa, come ad una delle sue principali ragioni, alla inesauribile imponenza della libertà, di Dio anzitutto, e dell'uomo; libertà che modella una azione che sfugge alle troppo larghe maglie della ragione filosofica6. La decisività del teologico infine si iscrive nella riscoperta della centralità del soprannaturale: come non esiste una “natura pura”, separata e indipendente da quello, che ne è invece il Centro e il Senso, così non esiste una storia “puramente profana”, adeguatamente leggibile a prescindere dal soprannaturale.

3. Coordinate contenutistiche

Veniamo ora a considerare la questione, più contenutistica, delle motivazioni e dei limiti della modernità. Se si giudica sostanzialmente positiva la cultura (e di riflesso la civiltà) medioevale, come fanno, sia pur con diverse sfumature, de Lubac e Maritain, ci si deve porre il problema del perché da essa si sia staccata una cultura, che è apparsa, all'apice della sua fioritura, radicalmente anticristiana. La soluzione data dai due pensatori li vede divergere, benché non in misura troppo accentuata. Maritain trova il movente fondamentale del moderno in una reazione alle tendenze fideistico soprannaturalistiche, di cui era inficiata la Cristianità medioevale: una compressione dei giusti diritti della ragione e della natura, schiacciate e assorbite dalla fede e dal soprannaturale 7 ha prodotto dialetticamente un movimento di segno opposto, razionalistico naturalistico, che percorrendo inesorabilmente le tappe del suo intrinseco sviluppo, è sfociato nella totale negazione del Cristianesimo. In tale ottica egli colloca l'inizio della modernità, vista come un fenomeno essenzialmente antropocentrico, virtualmente e confusamente nella crisi tardomedioevale, formalmente e compiutamente nell'umanesimo rinascimentale, nella Riforma protestante e in Cartesio.

Il teologo gesuita retrodata tale inizio al primo apparire dei germi razionalistici, nel Basso Medioevo8, per cui lo stesso Tommaso non è del tutto esente da tendenze moderne9. De Lubac infatti giudica la modernità dal suo rapporto con il Cristianesimo: e da questo punto di vista, teologico, essa si configura come un tradimento, o quantomeno una riduzione rispetto alla Totalità, alla Pienezza cattolica, sostanzialmente vissuta e custodita dalla tradizione patristico altomedioevale. in un certo senso quindi non si dà ragione dialettica del sorgere della modernità razionalistico naturalistica: essendo rapportata all'Evento cristiano, essa resta un fenomeno intimamente opzionale, e dunque piuttosto morale che culturale.

Peraltro è significativo che tanto gli inizi quanto alcune delle tappe decisive della modernità “cattiva”, abbiano i loro protagonisti nel mondo ecclesiastico. Segno che uno dei rischi maggiori, che il Cristianesimo corre, più ancora forse che gli attacchi dall'esterno (per così dire), è quello di una sclerotizzazione istituzionalista e clericale, di una perdita della freschezza delle origini e dello stupore per quel Dono divino che eccede la misura umana.

D'altra parte l'epoca moderna non ha mancato di far emergere valori positivi (e proprio in ciò potremmo vederne il senso in una prospettiva provvidenziale). Questi valori, paradossalmente portati avanti soprattutto da semplici laici10, non sono in contrasto con il Cristianesimo, ma ne rappresentano un inveramento, una comprensione ed una attuazione più intensamente conseguenti. Se perciò ha prevalso la linea che li declinava in senso anticristiano, ciò è dovuto a cause ad essi esterne. E cioè, innanzitutto, a quella opzione morale di cui parlavamo prima, che ha liberamente deciso di voltare le spalle alla Fede, ponendo l'immanenza soggettivistica a centro e misura di tutto. Ma non sarebbe inesatto aggiungere, volendo trovare una base motivazionale intelligibile a tale opzione, l'autoriduzione del Cristianesimo, operata all'interno del mondo cristiano, soprattutto a livello istituzionale teologico, tanto cattolico, quanto (a fortiori) protestante.

4. Aspetti negativi

Focalizziamo dunque in che cosa consista quella riduzione, e quali siano gli altri fenomeni negativi che contrassegnano la modernità.

a) De Lubac definisce razionalismo teologico l'impostazione egemone nella teologia cattolica postmedioevale, i cui principali esponenti furono il Gaetano, Bañez, Suarez, Bellarmino. Ma, riduttivi della Pienezza cattolica, furono pure i soprannaturalisti, falsamente proclamantisi agostinisti, quali soprattutto Baio e Giansenio. E a maggior ragione di riduzione si può parlare a proposito del protestantesimo11. Comune a tali riduzioni è il porre al centro di tutto non l'Evento cristiano, lievitante l'umano, ma una certa idea di natura umana, vista come tendenzialmente intrascendibile e impermeabile ad altro.

Anche il soprannaturalismo cattolico partecipa di questo antropocentrismo e proprio in ciò tradisce l'impostazione genuinamente teocentrica di Agostino. De Lubac infatti dimostra come l'umanità immaginata da Baio e Giansenio abbia bensì uno strutturale bisogno della Grazia, ma solo come di un complemento della propria natura, al servizio dunque di questa e conformantesi alla sua misura. Insomma non la natura gravita intorno al sole del soprannaturale, accettando la “ buona avventura” (Péguy) di perdersi in una Realtà più grande di sé, ma è la grazia a dover ruotare intorno alla natura. Non solo tra le due vi è abbraccio e confusione, ma ad essere assorbita risulta la grazia12. Così de Lubac può parlare a tale proposito di un “ pelagianesimo impotente”. Analoghi rilievi, lo ribadiamo, potrebbero essere svolti circa il protestantesimo.

Apparentemente opposto al soprannaturalismo fideista, il naturalismo, come abbiamo detto, ne condivide il presupposto antropocentrico, pur senza spingerlo oltre i limiti dell'ortodossia. Dei due motivi di tale impostazione, quello autogeno e quello polemico reattivo (in seguito e in contrapposizione al protestantesimo), Lubac ritiene decisivo il primo13.

Non per nulla la teoria della natura pura fa la sua prima comparsa con Dionigi il Certosino (1402/1471), vissuto un secolo prima della Riforma protestante. Già in Dionigi troviamo l'idea che una conoscenza naturale di Dio potrebbe saziare l'umano desiderio e non lascerebbe nessuna inquietudine: si tratta di una tesi nuova, evidenzia de Lubac, dato che non solo la tradizione agostiniana e patristica, ma lo stesso S. Tommaso avevano insegnato che esiste nella natura umana, creata di fatto per un Fine ultimo soprannaturale, una aspirazione, il desiderium naturale videndi Deum, tale da non poter essere saziata da alcun altro fine. E si tratta di una tesi la cui origine va cercata nell'assorbimento acritico della mentalità razionalistico naturalistica, che andava maturando negli ultimi secoli medioevali. Così de Lubac descrive come determinante quella convergenza di fattori che, a partire dall'inizio della Scolastica, con la tendenza disgiuntiva della logica aristotelica14, passando attraverso lo sgretolarsi della cultura cristiana unitaria ad opera di un averroismo più o meno esplicito15, e l'esaltazione rinascimentale di una umanità intesa naturalisticamente, cospira ad alimentare l'idea di una natura pura, separata, più che distinta, dal soprannaturale. Una natura pura che si costituisce come un ordine in sé completo, autosufficiente, chiuso (tendenzialmente) in sé stesso. Tale natura è ora, veramente e in tutti i sensi, normale. Il soprannaturale diviene sempre più qualcosa di eccentrico e di marginale.

Il maggior responsabile di questa ascendenza autogena della teoria della natura pura è il Gaetano, che pur figurava, e a lungo fu ritenuto, come un fedele commentatore dell'Aquinate, mentre secondo de Lubac egli diverge dal maestro su punti essenziali concernenti il rapporto tra natura e soprannaturale, nel senso di una accentuata separazione tra i due piani16. Egli accettava, nella sostanza, l'impostazione del Certosino sull'impossibilità, già stabilita da Aristotele, che un ente abbia come fine ultimo qualcosa che eccede le sue capacità naturali: solo che mentre Dionigi era consapevole, rileva de Lubac, di innovare, il Gaetano ritiene di interpretare correttamente il pensiero del Dottore Angelico. Alla formazione della teologia della “natura pura” concorse, come prima dicevamo, anche la polemica contro il soprannaturalismo protestante; in particolare de Lubac analizza le motivazioni del Bellarmino, che egli considera con maggior benevolenza, pur notando come non fosse affatto necessario, per combattere Lutero assumere, seppur a malincuore, delle tesi diametralmente antitetiche, che esulavano dalla tradizione cattolica. La gratuità del soprannaturale, afferma infatti de Lubac, può benissimo essere salvata anche ammettendo il desiderium naturale videndi Deum, cioè ammettendo che nella natura, in questa concreta e storica natura, destinata di fatto alla visio Dei, sia stato inserito da Dio stesso non il soprannaturale, ma il desiderio del soprannaturale. Solo così si garantisce, senza confondere i piani, quel ponte, quel legame tra ambito umano e Cristianesimo, che altrimenti risulterebbero estrinsecamente giustapposti. Ed è in effetti ciò che è accaduto, secondo de Lubac, nei secoli moderni, in cui il naturale si è sempre più costituito come un ambito intrascendibilmente normativo, tale da non tollerare di essere riplasmato e trasfigurato, neppure dal lievito della grazia dì Dio (significativo è il rifiuto di ammettere qualsivoglia eccezione al principio, formulato da Aristotele nel De Coelo, cui abbiamo accennato sopra 17).

Un tale processo, che come abbiamo detto ha una origine prossima di tipo piuttosto filosofico culturale che teologico, aveva probabilmente una sua forza e una sua logica intrinseca, extra teologica, ma è difficile pensare che esso si sarebbe sviluppato senza rilevanti differenze, se avesse trovato nella cultura teologica, espressione di un mondo ancora largamente maggioritario e dotato di una vasta influenza, una opposizione netta e intelligente.

Invece prevalse una irriflessiva osmosi con i valori del razionalismo e del naturalismo moderni, combinantesi con l'unilaterale accentuazione di tesi antiprotestanti in un clima più dominato dalla polemica, che dalla tensione alla totalità cattolica.

Il risultato di tale impostazione era un forte dualismo tra natura e soprannaturale, tra umano e cristiano, tra finito e Infinito: l'immagine di esistenza che ne emergeva, storicamente incarnata nella civiltà barocca, prevedeva un sostanziale appagamento del desiderio nell'ordine naturale. Ma si trattava di un equilibrio instabile18, poiché l'uomo è desiderio di Infinito; e anche perché la sua natura non si trova, di fatto, in uno stato di integrità, e il male che la insidia è un ulteriore incentivo a trascenderla.

b) E poiché proprio la religione, che più avrebbe dovuto saziarlo in quella esigenza, paradossalmente gli proponeva un ideale naturalistico di finitezza, l'impeto di ricerca di una totalità liberante doveva rivolgersi altrove, cioè in un progetto storico.

De Lubac ha seguito con attenzione l'evolversi di tale grandioso processo, che, censurato dalla cultura dominante (restia ad ammettere i suoi debiti verso il religioso), attraversa come una corrente sotterranea ma determinante l'intero percorso della modernità. La grande intuizione del carattere infinitistico totalizzante dell'ateismo contemporaneo, contenuta ne Le drame de l’humanisme athée (1944), viene ampiamente svolta e criticamente fondata in una delle sue ultime fatiche, La posterité spirituelle de Joachim de Flore (1979/1981), in cui egli dimostra l'ascendenza gioachimitica di tutti i grandi progetti ateistici contemporanei. E l'attesa gioachimitica dell'Età dello Spirito è costitutivamente attesa di una divinizzazione dell'uomo, la cui origine è la perversione intramondana di elementi cristiani19. Nel richiamo a quegli elementi 20 de Lubac non vede tanto una operazione di facciata, la verniciatura superficiale di un progetto fondamentalmente finitistico: pur cercandola nella storia, è comunque una deificazione che l'umanità antropocentrica ha perseguito. In questo contesto egli ritiene che delle due componenti dell'ateismo, quella irreligioso indifferentistica e quella positivo totalizzante, la più incisiva e profonda sia stata la seconda21, se non come diffusione nella mentalità quotidiana delle masse, almeno come orientamento dei grandi indirizzi culturali contemporanei. Il che è vero non solo per il progetto ateistico-totalizzante di Marx e di Nietzsche, entrambi alla ricerca di un “Uomo nuovo”, totale e perfetto22, ma anche per quello, apparentemente più modesto, di Comte.

Tesi, questa, che ci sembra particolarmente attuale nella odierna temperie culturale, che si vorrebbe postideologica e “debole”, e perciò davvero rispettosa della libertà ed antitotalitaria. Senza spingere troppo oltre i legami, è infatti legittimo vedere nel mito neotecnocratico una eredità del positivismo23. Orbene, de Lubac ci mostra un Comte tutt'altro che innocuo: il suo non è un tollerante agnosticismo, in fondo indifferente alle diverse opzioni fondamentali sui problemi ultimi dell'esistenza, ma e un vero e proprio antiteismo, che si propone di riplasmare radicalmente l'umanità, sradicandone definitivamente la possibilità di volgersi a Dio24. Il progetto di società, retta totalitariamente dalla nuova Religione dell'Umanità, non è secondo de Lubac una appendice insignificante del pensiero di Comte, il frutto bizzarro e carnevalesco di una esaltazione romantica ormai passata, ma è inestricabilmente inviscerato nell'essenza del suo sistema25. Il che peraltro fornisce da un lato una ulteriore riprova della ineliminabilità del religioso, della incancellabile esigenza di totalità. E dall'altro conferma anche in questo caso, come in quello dei progetti marxiano e nicciano, che la negazione della Trascendenza, per la ricerca di assoluti idolatrici nella storia, comporta la distruzione dell'umano.

Per de Lubac infatti l'ateismo non può essere visto come una salutare purificazione, che libererebbe la pura fede dalle negative incrostazioni della “religione”. Anche se esso può essere stato disposto dal Signore della storia per un bene maggiore, che non può certo essere comunque la eliminazione della “religione”, cioè della incidenza della fede sulla vita, l'ateismo è in sé stesso un male. Devasta l'umano e perciò va combattuto26.

Aggiungiamo infine che per de Lubac il trapasso da un impianto neogioachimitico, presentantesi come “inveramento” del Cristianesimo, all'ateismo positivo ed assoluto non è qualcosa di definitivo ed irreversibile, né del resto comporta sempre una discontinuità27.

5. Elementi positivi

a) Uno dei principali valori positivi, sottolineati dalla modernità in senso lato, e declinati correttamente dal filone cristiano moderno è quello della specificità della soggettività umana, che all'interno degli enti occupa un posto centrale. Si tratta di una concezione specificamente cristiana, come del resto lo stesso Hegel doveva riconoscere e che la cultura medioevale aveva già tematizzato. In qualche modo l'aristotelismo tomista, reintroducendo, rispetto all'agostiniana sottolineatura dell'interiorità, una dose piuttosto cospicua di oggettivismo naturalistico, aveva segnato da questo punto di vista una regressione. De Lubac comunque non afferma mai esplicitamente che l'antropocentrismo moderno sia stato in qualche misura una reazione all'antropologia scolastica.

Egli tratta con più ampiezza di questo argomento in Pic de la Mirandole (1974), opera che si colloca nella più vasta impresa 28 di mostrare non solo e non tanto una continuità, in senso burdachiano, tra Medioevo cristiano e Rinascimento, quanto l'esistenza di un Umanesimo cristiano, non come un informe anello di congiunzione, quasi per anestetizzare l'altrimenti troppo brusco passaggio tra religiosità e terrestrità, ma come fenomeno vivo ed originale.

Ben lungi dall'essere un precursore di Sartre o di Kafka, l'araldo della assoluta autocreatività di una umanità antropocentrica, come da parte di troppi interessati interpreti è stato sostenuto, Pico emerge dalla minuziosa e dotta analisi di De Lubac come un sincero credente ed un originale pensatore. La sua sottolineatura della libertà è vista dal teologo di Cambrai piuttosto come un approfondimento della tradizione patristico agostiniana, riattinta oltre le mediazioni della Scolastica, incline allo intellettualismo. In particolare Pico non nega affatto l'esistenza di una natura umana, ma la concepisce come qualcosa di più aperto di quanto non facesse Tommaso29: la sua libertà comunque non ha un potere creatore, si esercita tra alternative determinate. Significativamente, evidenzia de Lubac, nella Oratio, Dio, che pur si rivolge ad Adamo prima del peccato originale, quando la sua natura era ancora integra, attribuisce all'uomo solo il potere di “degenerare” in inferiora, mentre usa la diatesi passiva (“in superiora... regenerari”) quando si tratta di assimilarsi a Lui: solo Dio, intende insomma dire Pico, può innalzare l'uomo al di sopra della sua finitezza. Nessun titanismo dunque, e nemmeno nessun pelagianesimo. Al tempo stesso la concezione del conte della Mirandola risulta pienamente moderna e avrebbe potuto rispondere in modo adeguato alle esigenze dei nuovi tempi. Solo la sua morte precoce, e più ancora la vittoria della corrente immanentista del moderno, hanno fatto sì che il suo progetto culturale, come del resto quello di molti altri esponenti dell'umanesimo cristiano postmedioevale, restasse una “alba incompiuta”.

Non possiamo qui riprendere con ampiezza tutte le personalità culturali, che de Lubac iscrive nella corrente autenticamente cristiana della modernità; ci limitiamo a ricordare qualche nome, come quello di Marsilio Ficino (con la sua idea, interessante, se sfrondata di accenti sincretistici, della storica sedimentazione di un florilegio di testimonianze all'unica Verità), di Giannozzo Manetti (in cui il valore dell'operosità non è disgiunto da quello, superiore, della contemplazione), del Cusano (di cui è apprezzabile il senso della centralità dell'uomo, innestata però sulla centralità del Cristo, mediatore decisivo tra finito e Infinito), di Erasmo30, di Tommaso Moro, di Pascal (le cui tesi della essenziale esistenzialità della conoscenza di Dio, e il cui stesso stile aforistico riecheggiano spesso in Paradoxes e Nouveaux paradoxes), del Bérulle (la cui percezione del bisogno dell'uomo e il cui cristocentrismo sono al tempo stesso tradizionali e moderni31), di Dostojevskji e di Kierkegaard (ai quali è affidato il compito, ne Le drame de l’humanisme athée, di illustrare da un lato la sconfitta dell'ateismo, disintegratore dell'umano, e dall'altro la capacità cristiana di valorizzare istanze moderne, come la concretezza esistenziale della ragione).

b) L'accentuazione della specificità del soggetto, dello spirito, che è intimamente libertà, non viene però affermata unilateralmente, con esiti spiritualistico acosmistici: l'altro grande tema moderno e cristiano è quello del valore del mondo, valore che risiede nella sua sacramentalità. De Lubac affronta questo tema nelle sue opere dedicate al pensiero di Teilhard de Chardin, suo confratello ed amico32. Pur non essendo esente da ingenuità e da un uso talora infelice del linguaggio, egli ha avuto il merito, secondo de Lubac, di integrare dentro un orizzonte pienamente cristiano i valori, moderni, della storia e dell'impegno nel mondo, superando così quel dualismo disincarnato, e quel conseguente pietismo avulso dal reale, che tanta credibilità aveva tolto alla proposta cristiana di fronte all'uomo moderno. Lo scienziato teologo gesuita infatti, non limitandosi al rilievo metodologico che scienza e fede non si contrastano, ma tentando di mostrare come, contenutisticamente, si armonizzino integrandosi, valorizza i dati scientifici (soprattutto in rapporto al fenomeno della evoluzione) per costruire una nuova immagine del cosmo, più attagliata al Cristianesimo di quella classica. E alla concezione cristiana meglio si conforma un cosmo in evoluzione, intesa come cammino sensato orientato (dell'inorganico verso l'organico, dell'organico verso l'umano, dell'umano verso l'Omega cristico), che non un cosmo immobile, di eredità ellenica. De Lubac spiega come Teilhard non ignorasse la distinzione tra i livelli e le discontinuità: tra inorganico e vivente, più ancora tra mondo animale e uomo, come pure (e molto più) tra ambito naturale e Realtà cristica. In tutti questi casi l'evoluzione del primo polo non basta a spiegare la comparsa del secondo; esiste uno iato, una differenza qualitativa netta. Tuttavia se non di condizioni sufficienti, pur sempre di condizioni necessarie si tratta: solo così si supera un acosmismo occasionalistico.

Così, in particolare, la storia può acquistare un senso né “puramente naturale” (senza nesso con Cristo), né (fideisticamente) di mera tentazione, in sé negativa e ostacolante, bensì positivamente e pienamente cristiano, anzi cristofanico e “cristogenetico”: preparazione, necessaria, benché non sufficiente, alla Manifestazione /Pienezza escatologica del Cristo totale33. Se infatti il Cristo totale non si identifica con il mondo presente (transeunte e inficiato dal male), è pur vero che Egli non è solo “al di là” e “al di sopra” di esso, ma anche “dentro” il mondo, come suo Centro e Cuore. Dunque impegnarsi seriamente con il mondo, con la storia, mirando alla sua Verità ultima e al suo vero Bene, significa impegnarsi a rendere sempre più trasparente la Presenza, che in essi alberga. Perciò l'etica cristiana non dovrà concepire l'ascesi e la mortificazione come distacco dalla realtà concreta, ma piuttosto dalla propria cattiva volontà per cercare Dio in Cristo, e Cristo dentro la verità delle cose34.

Difendendo, pur con qualche rettifica, la concezione di Teilhard de Chardin, dalle accuse di eterodossia, de Lubac rivela al tempo stesso come sia anche per lui giusto rivalutare, da un lato, l'istanza moderna della consistenza. e del valore della natura materiale, senza d'altro lato separarla dal suo Fondamento e Centro, il nesso col quale anzi va riaffermato pienamente, dopo i secoli di dualismo del razionalismo teologico.

e) Un terzo fattore da valorizzare, dopo quello della specificità del soggetto umano, e quello della sacramentalità del mondo, è per de Lubac l'istanza della giustizia sociale. Egli affronta questo tema nel suo lavoro su Proudhon, autore che non viene certo “battezzato”, ma cui pure il gesuita di Cambrai guarda con simpatia, e che egli contrappone a Marx. Pur non essendo credente, anzi essendo violentemente anticlericale, Proudhon si differenzia dagli umanesimi antropocentrici di Hegel, Comte e Marx, per la sua devozione, al di sopra di una astratta e mitizzata Umanità, verso la Verità e la Giustizia. La Giustizia è infatti per lui un valore assoluto, come la verità: e ciò comporta un profondo rispetto per l'uomo concreto, realmente esistente, ben diverso dall'atteggiamento violentemente progettuale dei già ricordati umanesimi antropocentrici35.

Ne segue una visione sociale assai più vicina al Cristianesimo dei progetti utopico totalitari ispirati all'antropocentrismo, in quanto più realistica: invece di una (di fatto irrealizzabile) Sintesi, totalmente perfetta, ultimo esito di una dialettica violenta, Proudhon prospetta la graduale attuazione di un Equilibrio tra. le polarità antinomiche (in particolare tra quella della individualità /proprietà e quella della socialità). Connesso a questo realismo è il primato del sociale sullo Stato, altro fattore di convergenza con la dottrina cristiana (da sempre antistatalista) e di opposizione ai progetti totalitari antropocentrici.

Conclusione

1) Come si è visto non manca una certa organicità all'impianto interpretativo di de Lubac. Ciò è vero soprattutto per la pars construens, mentre nella pars destruens, se troviamo una notevole coerenza interna, manca una convincente analisi delle cause, che hanno spinto i secoli moderni in senso anticristiano. Il minimo che si può dire è che il discorso non è completo. Per questo ci pare che esso potrebbe utilmente integrarsi con quello di Maritain, il quale riesce invece ad indicare, nella “compressione” della natura, un motivo fondamentale pienamente plausibile.

Certo, parlando di integrazione, intendiamo una nuova interpretazione (un tertium quid, rispetto alle due già date), poiché lo stesso Maritain non riesce a spiegare come mai, se il tomismo (e la civiltà del XIII secolo in genere) fu veramente l'attuazione del giusto equilibrio tra natura e soprannaturale, la storia poi andò (come reagendo ad uno squilibrio) in un senso unilateralmente immanentistico36.

Ci pare quindi legittimo indicare come direzione di lavoro quella di una integrazione tra le due prospettive: l'una può ben accettare che il limite della Cristianità patristico altomedioevale (a cui perciò reagì il moderno) è stato quello del soprannaturalismo; a sua volta l'altra dovrà pur concedere che la sintesi scolastica non è stata l'epifania di un equilibrio metastoricamente ottimale, ma ha accentuato alcune dimensioni piuttosto che altre.

2) Le divergenze non riguardano solo l'origine del moderno, ma altresì i suoi possibili contenuti positivi.

a) Anzitutto la questione della soggettività. Già abbiamo visto, parlando di Pico, come la sottolineatura della specificità del soggetto umano non significa necessariamente antropocentrismo: soggettività non significa soggettivismo. In questa prospettiva ermeneutica de Lubac, come altri teologi, che potremmo per comodità definire di indirizzo neopatristico (ad esempio Romano Guardini, von Balthasar, Daniélou, Przywara) non bolla come irrecuperabile antirealismo, ma piuttosto tende a valorizzare le riflessioni gnoseologiche del versante cristiano della modernità. Emblematica è, a questo proposito, la sua preferenza per Blondel, che egli antepone nettamente a Maritain circa il problema del rapporto fede/ragione e della filosofia cristiana. E Blondel è appunto esponente di quella impostazione che, criticando di sterile oggettivismo il neotomismo, assimila l'istanza, “modernissima ”, di concretezza esistenziale, di una filosofia in profonda osmosi con la vita integrale del soggetto37. è noto che Maritain non approvava tale orientamento, reo a suo avviso di una ingiustificata sfiducia verso una metafisica imperniata sull'oggettività dell'essere.

b) Un altro punto di discrepanza lo troviamo circa il valore del mondo corporeo (e, in fondo, del livello naturale in genere). Maritain, ne Le paysan de la Garonne, pronuncia un giudizio complessivamente negativo (pur non senza qualche distinguo e con espressioni di stima personale) sul pensiero di Teilhard de Chardin. A parte le componenti di bizzarria linguistica, che dovevano infastidire non poco un filosofo avvezzo alla massima precisione lessicale, noi vediamo in ciò una marcata differenza contenutistica: l'ontocosmologia di Teilhard, quale almeno la presenta de Lubac, non può non peccare, agli occhi di un tomista, di soprannaturalismo, di un soprannaturalismo, per così dire, “pancristista”. Il suo difetto imperdonabile insomma è di misconoscere la dovuta autonomia dell'ordine naturale. Tuttavia la differenza è qui meno marcata che nel problema gnoseologico: vi è infatti almeno un convergente giudizio sul riconoscimento di un giusto spessore ontico assiologico alla concretezza corporea38, vista comunque come un valore non ultimo e non assoluto.

c) Le divergenze si attutiscono ulteriormente se consideriamo il problema politico sociale. Concorde è la sottolineatura del valore della persona, inserita liberamente e responsabilmente in rapporti comunionali; e dunque rifiuto tanto del collettivismo, quanto dell'individualismo. Concorde, nel solco di una bimillenaria tradizione, l'affermazione di una giustizia naturale, misura delle leggi positive, e di conseguenza la condanna sia dello statalismo, sia, a fortiori, del totalitarismo, la cui radice è vista da entrambi nell'immanentismo.

Se volessimo trovare, più che una opposizione, una diversa accentuazione, la potremmo vedere nel diverso peso, che le due impostazioni attribuiscono all'istituzionale. Nel contesto di una filosofia che sottolinea più l'universale che il singolare, più la prevedibilità delle leggi che l'indeducibilità del concreto, Maritain (e in genere il neotomismo) tende a fare più affidamento sulla progettualità generale e sulle strutture. Nel contesto di una visione che invece accentua il valore della singolarità concreta, e dell'imprevedibilità degli eventi (nei quali, più che nell'intelaiatura intelligibile universale, è veicolato il Disegno di Dio), de Lubac tende ad attribuire più importanza all'emergere di particolarità vive e spontanee che all'apparato istituzionale e alla elaborazione di progetti globali.

Ma in tutti e tre i casi ci sembra che le differenze non siano tali da costituire un motivo di insormontabile incomunicabilità. Il vero “fronte” è un altro, quello dell'ateismo e della scristianizzazione anzitutto, che, dichiarato o strisciante, domina la nostra cultura, trovando non di rado atteggiamenti di ingenua accondiscendenza anche dentro il mondo cristiano. Del resto, come già diceva S. Agostino, tale “fronte” è interno ad ognuno di noi, ed è innanzitutto lì che va combattuto. Non possiamo che concludere, quindi, auspicando che la cultura cattolica possa lavorare proficuamente, integrando ed assimilando tutto ciò che di positivo esiste, senza eclettismi ma anche senza esclusioni preconcette, nella fedeltà a quel Dio Unitrino, che è incontraddittoria Totalità.

note

1 Intendiamo dire i seguenti volumi: Affrontements mystiques, ed. Tem. chrétien, Paris 1950 (tr. it. Borla, Torino 1965); Augustinisme et théologie moderne, ed. Aubier, Paris 1965 (tr. it. Jaca Book, Milano 1978, da cui cit. con AgT); Athéisme et sens de l'homme, ed. Du Cerf, Paris 1968; Le drame de l'humanisme athée, ed. Spes, Paris 1944 (tr. it. Morcelliana, Brescia 1978, da cui citeremo con DUA); La pensée religieuse du Père Teilhard de Chardin, ed. Aubier, Paris 1962 (tr. it. Jaca Book, Milano 1983, da cui cit. con TEI); La posterité spirituelle de Joachim de Flore, 2 voll., ed. Lethielleux, Paris 1979-81 (tr. it. Jaca Book, Milano 1982-84, da cui cit. con GF); Pic de la Mirandole, ed. Aubier, Paris 1974 (tr. it. Jaca Book, 1977, da cui cit. con PIC); Proudhon et le Christianisme, ed. Du seuil, Paris 1945 (cit. con PCh). Ci limitiamo ai testi più importanti.

2 Cfr. Trois Réformateurs, Paris 19371 (tr. it. Morcelliana, Brescia 1974, da cui cit. con REF) in cui vengono individuate le radici culturali della modernità, Humanisme intégral, Aubier, Paris 19361, 19462 (da cui la tr. it. Borla, Roma 1977, cit. con UM) per i risvolti storico politici e, per limitarci a pochi testi, Science et sagesse, Labergerie, Paris 1935, per gli aspetti epistemologici.

3 Indubbiamente Maritain prende le distanze (cfr. On the philosophy of history, New York 1953) da una filosofia della storia di stampo hegeliano, con la sua pretesa di sviscerare il senso di ogni evento e di mostrarne così la necessità: per lui l'ambito legittimo di tale ramo della filosofia è solo l'universale, o meglio il generale, le leggi che strutturano la evoluzione storica. Tuttavia rispetto a de Lubac si trova nel filosofo francese una tendenza a interpretare la storia, nella fattispecie il moderno, in modo piuttosto organico, evidenziando più i nessi e le continuità, che i fattori di discontinuità e di imprevedibilità. Ad esempio in REF esiste una conseguenzialità serrata tra la riforma religiosa di Lutero, quella gnoseologica di Cartesio e quella etico politica di Rousseau, o in UM la dialettica tra civiltà cristiano sacrale e civiltà laico profana (che dovrebbero “sintetizzarsi” in una instauranda civiltà cristiano profana) è un processo ampiamente intelligibile di concatenazione, in cui ogni elemento condiziona fortemente gli altri. Indubbiamente insomma, si documenta anche in questo ambito il maggior “ potere” che Maritain attribuisce alla ragione, rispetto a de Lubac.

4 Cfr. lo spazio dedicato al rapporto tra grazia e libertà in UM, o al problema religioso in REF.

5 è noto che una delle tesi portanti di de Lubac è l'essenziale storicità della Rivelazione, polemizzando contro quel razionalismo teologico che assegnava il primato alla concettualizzazione astorica della teologia speculativa. E che nei secoli postmedioevali aveva rischiato di ridurre il Dato rivelato dentro gli schemi del logos filosofico. Di contro de Lubac, al seguito di un più vasto movimento di “ritorno alle fonti” biblico patristiche, aveva rivendicato con forza l'irriducibilità del Cristianesimo come evento storico a categorie astratto universali (cfr. in particolare Le mystère du surnaturel, Paris 1965, capp, 6 9).

6 Come abbiamo già detto nel nostro “Appunti sul tema della libertà in de Lubac”, in Per la filosofia, n. 9, pp. 94 segg., questo tema si ricollega all'impostazione fondamentale di de Lubac, che recupera, rispetto all'accentuazione intellettualistico naturalistica della scolastica moderna, il valore della componente affettivo volitiva (ex parte subiecti) e il primato assoluto del Mistero (ex parte obiecti) sulla razionalità.

7 UM, cap. I° passim, in particolare pp. 70-1.

8 Tale analisi è condotta con più ampiezza in Corpus mysticum (Paris 1944, tr. it. Jaca Book, Milano 1982), laddove l'autore individua il soffocamento della mentalità simbolica, tradizionale fino allora, ad opera della dialettica, fin dall'XI secolo (cfr. pp. 283 segg.). Lo stesso Anselmo pur non laicizzando la ragione (p. 302 dell'ed. it.) può considerarsi, con Abelardo, tra i fondatori del “razionalismo cristiano”, che “non poteva più concepire l'intelligenza dei misteri al di fuori della loro dimostrazione” (p. 303).

9 A partire dalla più modesta importanza da lui effettivamente attribuita alla S. Scrittura e alla sua esegesi simbolica, nei confronti della ragione concettuale (cfr. Exégèse médiévale, vol. 4°, Aubier, Paris 1964; tr. it. Paoline 1972, pp. 1475 segg., in specie pp. 1497-500). Parallelamente, rivalutando il piano naturale, concorre a ridurre la centralità del Soprannaturale, ad una superiorità, che i suoi commentatori moderni riterranno sempre più accessoria (cfr. Le mystère du surnaturel, Paris 1965, cap. 2°).

10 E un'idea questa ripresa anche da von Balthasar, secondo il quale la fiaccola della originalità, come creatività fedele alla Tradizione, è passata, in epoca moderna, dalle mani degli ecclesiastici a quelle dei laici (cfr. le introduzioni ai due volumi di Gloria, significativamente intitolati Stili ecclesiastici e Stili laicali, Jaca Book, Milano).

Nel medesimo spirito de Lubac vede con maggior simpatia la drammatica sincerità umana di certi pensatori, anche atei, come Nietzsche (cfr. “Nietzsche mistico”, ora in Mistica e mistero cristiano, Jaca Book, Milano 1979, pp. 267 298), o come Proudhon (cfr. PCh), che non l'imborghesita tiepidezza di molto mondo cattolico moderno.

11 De Lubac non dedica molto spazio al protestantesimo, ma ciò non va attribuito a qualche forma di accondiscendenza: la tagliente condanna del giansenismo ne implica una ancor più severa verso l'esplicita eresia, come del resto emerge in molti passi dell'opera del teologo di Cambrai.

Lo spazio dedicato al giansenismo (in AgT) si spiega poi con la necessità di liberare Agostino dalle distorcenti interpretazioni soprannaturalistiche di Giansenio.

12 AgT, pp. 39-125. Cfr., ad esempio, p. 43: “Lo Spirito Santo non interviene che come mezzo, di cui non si può fare a meno, per dei fini del tutto naturali [ ... ]. La forza divina in Baio è messa a servizio dell'uomo, in vista di uno scopo umano”.

13 Coerentemente con la sua impostazione complessiva del resto, per cui nella riduzione antropocentrica del Cristianesimo è determinante l'opzione.

14 Così in Catholicisme, Du Cerf, Paris 1938 (tr. it. Jaca Book, Milano 1978, in particolare pp. 232-3: “La logica aristotelica si mostrava ribelle alle concezioni organiche e unitarie che avevano trovato da tempo, per certi riguardi, una alleata nella mentalità platonica”; “nella sua avidità di chiarezza analitica si spazientisce di ogni idea misteriosa ”).

15 AgT, pp. 172 segg. De Lubac rimarca come il Gaetano, attivo ben prima di Lutero, e uno dei fondatori del moderno naturalismo teologico, si formò in quella università di Padova, che pullulava di aristotelismo “eterodosso” (p. 173). Di fatto il Gaetano assimila la teoria della “doppia verità ”: solo il livello naturale è solido e certo, il soprannaturale, non già negato, è però relegato tra “le cose "miracolose", cioè fra le eccezioni arbitrarie [ ... ]. La teologia diviene così una specializzazione marginale. Non esiste più concezione cristiana dell'uomo” (Ibi, p. 262).

16 AgT, in part. pp. 220-23. Ad esempio, p. 222: “per S. Tommaso "questa 'natura intellettuale' - l'uomo - non essendo [...] una res naturalis non poteva essere solo questo 'animale di alta specie' di cui parlerà Taine, riportando il pensiero dei greci. Vedeva in esso l'azione di un appetitus superior (De ver., q. 25, a. 1). [ ... ] Senza impedirgli di riconoscere una natura, sapeva riconoscere nello spirito umano una cosa ben diversa da 'un tutto chiuso' su sé stesso o su questo mondo [ ... ]. è uno slancio, un 'desiderio', per cui l'uomo è per lo meno indotto a capire che , si tratta non tanto di realizzare la natura, ma di superarla" (De Finance)”.

17 Cfr. AgT, p. 205 segg., in particolare p. 213. A Dionigi il Certosino che sentenziava che "naturale desiderium non se extendit ultra capacitatein naturalern [ ... ] secundum Aristotelem, in 'De coelo et mundo' "(nel De lumine christianae theoriae), faceva eco il Gaetano (In Primam, q. 12, a. 1): "non videtur verum quod intellectus creatus naturaliter desideret videre Deum, quoniam natura non largitur inclinationem ad aliquid, ad quod tota vis naturae perducere nequit”, come appare “in II° Coeli”.

18 Prospettiva simile anche in Maritain, UM, pp. 81 86. Ad esempio, a p. 86: “Giunti al termine di una evoluzione storica secolare, ci troviamo in presenza di due posizioni pure: la posizione atea pura e la posizione cristiana pura” (laddove il naturalismo dualista era una specie di instabile compromesso).

19 Non possiamo qui ripercorrere in dettaglio tutte le tesi sviluppate da de Lubac nei due ponderosi volumi, ma ricordiamo almeno qualche caposaldo: 1) la radicale eterodossia di Gioachino, che non si limitava a bandire un rinnovamento morale, ma profetizzava una trasformazione ontologica sostanziale nel Cristianesimo (GF, cap. 1'); 2) eterodossia significativamente condannata con nettezza sia da Tommaso sia da Bonaventura (cap. 3°); 3) ma diramantesi, in svariate forme, lungo tutta l'epoca moderna, dal francescanesimo estremista alle sette protestanti radicali (Müntzer, gli anabattisti), dai Rosacroce e da Boehme a Swedenborg per giungere ai grandi nomi di Lessing, Herder, Fichte, Schelling, Hegel, Saint Simon, e Marx, per limitarci ai più noti.

20 Elementi che, pur svuotati della loro autentica sostanza ortodossa, e ricondotti all'interno di un orizzonte immanentistico, costituiscono qualcosa di più di una decorazione ornamentale. Ad esempio, in Hegel l'impianto ternario e la connessa essenziale storicità dell'esistente si fondano su una, del resto esplicita, utilizzazione dei “concetti” cristiani di Trinità e di Incarnazione. Gioachimiticamente Hegel non rifiuta frontalmente, ma integra, interpretandolo, il Cristianesimo. Egualmente Marx laicizzerà, applicandoli al Messia Proletariato i concetti di Croce e Resurrezione (GF, vol. 2°, pp. 396 segg.): il suo materialismo, in apparenza del tutto storico e dialettico, mantiene così un “carattere mistico” (GF, p. 401).

21 De Lubac analizza comunque con attenzione anche la prima componente, che nella nostra epoca si caratterizza come una soddisfatta sazietà per il progresso scientifico-tecnico, visto come capace di liberare l'uomo dal bisogno, tanto conoscitivo quanto pratico, del Trascendente (cfr. Affrontements mystiques, cit. e Athéisme et sens de l'homme, cit.).

In realtà, egli osserva, la scienza e la tecnica possono risolvere dei problemi, ma non il problema dell'uomo. Questa irreligiosità finitistica è dunque una posizione superficiale, priva di dignità teoretica ed umana, anche se per certi aspetti può considerarsi una prosecuzione interamente laicizzata di quella teologia della “natura pura”, che di fatto proponeva all'uomo una meta finita.

22 Per quanto riguarda Marx, cfr. DUA, pp. 26 segg., e GF, pp. 402-5. Su Nietzsche, cfr. DUA, pp. 30-7, e ancora “N. mistico”, cit., passim.

23 Intendiamo alludere all'atteggiamento culturale oggi dominante. Il termine “debole” quindi non va preso in senso stretto, anche se forse non sarebbe falso dire che, qualunque sia l'ascendenza filosofica invocata dal “pensiero debole” (più o meno irrazionalistica), di fatto tale impostazione si presta a legittimazione teorica di un disegno tecnocratico di matrice neo borghese, certo più comtiana che nicciana.

24 DUA, pp. 125 127: “Se Comte non professa l'ateismo ordinario non è che egli voglia tenersi in una posizione agnostica: egli vuole andare al di là, superare l'ateismo. [ ... ] L'ateismo non estirpa la radice del male. [ ] (Comte) oltrepassa l'ateismo per meglio liquidare il teismo. ” (pp. 127 129). Quello di Comte è dunque uno scaltrito antiteismo, conscio che “si distrugge solo ciò che si sostituisce” (p. 132), il che appunto lo spinge ad elaborare, come parte integrante del suo sistema, la nuova “ Religione dell'Umanità”.

25 DUA, pp. 189 segg, Infatti la sola scienza, come conoscenza esatta, non potrebbe saziare l'uomo, e lascerebbe così ancora aperto, con un bisogno irrisolto, il problema religioso, l'aspirazione al divino e al trascendente.

26 La sua posizione è dunque ben diversa da quella dei teologi “ della morte di Dio”e “della secolarizzazione” che salutano con entusiasmo il nuovo clima, desacralizzato, della civiltà. Anche se, ovviamente, de Lubac distingue condanna dell'ateismo e dialogo con l'ateo (cfr. Ath. et sens..., cit.).

27 Un'altra tesi attualissima, dato che la strategia della odierna cultura immanentistica sembra essere più volta ad assorbire, che a combattere in campo aperto il Cristianesimo, favorendone un “superamento” gnostico gioachimitico dall'interno, che ne conservi i valori più socialmente utili, scartandone la mitologica ontologia. Cfr. DUA, p. 205: “la minaccia positivista” è “una di quelle che gravano più pericolosamente su di noi. Essa può essere improvvisamente ingrandita domani scriveva profeticamente nel 1944 dal fallimento di altre formule apparentemente più seducenti.” E prosegue osservando come molti slogans, in realtà ispirati all'antiteismo comtiano, “si dicano rumorosamente d'accordo con la filosofia tradizionale” ma ingannevolmente. “Essi seducono i credenti con formule equivoche. Circondano di onore il cattolicesimo, ma anche questo ha [...] lo scopo di meglio evacuare lo spirito cristiano. Anche uomini di Chiesa poco curanti del Vangelo si lasciano adescare.”

28 Tale opera è apparsa nello stesso periodo in cui venivano ultimati i lavori, condotti nella medesima prospettiva, da G. Chantraine su Erasmo, da Marc' hadour su Tommaso Moro, e da Tellechea Idigorras su Reginald Pole.

29 Sullo sfondo di una ontologia sostanzialistica e circoscrittiva, di matrice aristotelica, Tommaso racchiude la natura umana in un perimetro nettamente delineato: le altre nature le sono qualcosa di prevalentemente “esterno” (tranne che nella conoscenza, in cui l'anima “fit quodammodo omma”). Pico invece, nel contesto di una reintegrazione, accanto ad Aristotele, di tesi metafisiche platoniche, tendenti ad una visione più unitaria del reale, riattualizza il tradizionale concetto di uomo come microcosmo, che racchiude in sé (in qualche modo anche ontologicamente) tutte le essenze del cosmo naturale.

Osserviamo che la antropologia pichiana è più consona all'apertura verso l'Infinito, espressa nel “desiderium naturale videndi Deum”, della concezione tomistica, che sfuma ed attenua la specificità della natura umana rispetto alle nature degli enti infraumani, chiuse nella loro finitezza.

Cfr. Le Mystère du Surnaturel (1965), tr. it. Jaca Book, Milano 1978, pp. 75 88.

30 Per quanto riguarda Ficino, cfr. PIC, pp. 88/9 e segg., e cap. 3° della terza parte, pp. 285 segg.; il pensiero del Ficino appare però a de Lubac meno limpido e netto di quello di Pico. Il giudizio sul Manetti è sempre in PIC, p. III, cap. 1°, p. 247 segg., in cui de Lubac mostra una sostanziale convergenza del pensatore con Pico, rintuzzando le tesi del Gukovskij. Il pensiero del Cusano viene affrontato nel cap. 6% della medesima terza parte di PIC (ma con minor sistematicità è affrontato anche in Exégèse médiévale e in De la connaissance de Dieu, Paris 1948, passim): il teologo di Cambrai ne evidenzia decisamente gli apporti positivi.

Sostanzialmente apprezzabile risulta infine l'opera di Erasmo, alla cui piena riabilitazione in orizzonte ortodosso, e non vagamente eclettico, dedicherà i propri sforzi il discepolo di de Lubac, G. Chantraine (Mystère el Philosophie du Christ selon Erasme); cfr. PIC, pp. 433 435.

31 PIC, pp. 131 143; e AgT, pp. 291 292.

32 Su Teilhard esiste una bibliografia molto ampia, benché da più di un decennio egli non riscuota più grandi interessi. Per una rapida introduzione alla lettura datane da de Lubac, che ben lo conosceva, ci permettiamo di rinviare al nostro “Il valore cristiano del mondo in Pierre Teilhard de Chardin”, in Communio, n. 83 84 (sett./die. '85), pp. 44- 51.

33 TEI, pp. 165 166. Cfr. anche pagg. 136 137: “ L'affermazione dell'Apostolo: In quo omnia constant, che il padre Teilhard riprende instancabilmente, si traduce allora in lui, per sussistere nel suo realismo, nella fede nella "Persona del Cristo, principio e anima dell'evoluzione". Sapendo che il Cristo è il Primo Nato e il Capo". Egli conclude che in Lui e da Lui tutto è stato avviato, tutto dipende e tutto si consuma". infatti Il Cristo non è un accessorio aggiunto al Mondo, un ornamento [...] Egli è l'Alfa e l'Omega, la Pietra di fondazione e la Chiave di volta, la Pienezza e il Ricolmante. [ ] Egli è il Centro unico, prezioso e consistente, che scintilla sulla vetta ventura del mondo"” (cit. di de Lubac da Science et Christ).

Per quanto concerne l'evoluzione, abbiamo già detto della discontinuità, che Teilhard riconosce, tra la preparazione di un livello, ad opera di un livello immediatamente inferiore: l'uomo è dunque irriducibile alla evoluzione della specie animale, culminata nei primati (TEI, pp. 124 segg.); a maggior ragione la storia dell'Alleanza, culminata nella Incarnazione del Verbo, non è certo riducibile ad una favorevole costellazione di condizioni e di eventi storici, culturali e sociali; allo stesso modo la storia compresa tra le due venute del Cristo non è da Teilhard concepita come un inesorabile progresso verso un eschaton interamente contenuto nei suoi elementi costitutivi: il Regno escatologico noi] si identifica con qualche forma storica, che si possa presumere perfetta in un lontano futuro; nemmeno potrà essere preparato, come condizione, da una tale perfetta “Super Umanità”: finché dura la storia, resta la drammaticità della scelta, e la ineliminabile possibilità di un male, che anzi è probabilmente destinato a crescere. (TEI, cap. 10. passim). Il progresso potrà forse essere necessario per quanto riguarda la scienza, la tecnica e la coscienza stessa, ma da ciò non segue un parallelo progresso morale, che resta affidato alla libertà. Cfr. pag. 146: “L'evoluzione dice ancora mediante il meccanismo delle sue sintesi, si carica sempre più di libertà”; e “più una energia è potente ... più essa è anche equivoca e pericolosa nei suoi ribollimenti”.

Teilhard infatti, sottolinea de Lubac, non era per natura un ingenuo ottimista, e una parte cospicua hanno nella formazione del suo pensiero, la meditazione sul mistero del male e su quello della morte, così che, a suo riguardo, è più opportuno parlare di un “pessimismo superato” (TEI, p. 43, cfr. cap. 4' passim).

34 TEI, pp. 301 segg.

35 PCh, cap. 6% pp. 294 segg. Questa “adorazione della Giustizia” è secondo de Lubac una importante apertura a quella Trascendenza, che Proudhon pure non volle mai riconoscere, benché si trovasse a dover dire: Je pense à Dieu, depuis que j'existe (p. 116).

36 Nella medesima prospettiva Maritain resta convinto che la filosofia postmedioevale è stata sostanzialmente erronea, e che di essa possano essere valorizzate solo componenti marginalmente accidentali; laddove il tomismo dovrà certo aggiornarsi, ma solo assimilando tali componenti positive, che lo lasciano essenzialmente identico nella sua immutabile sostanza.

A noi pare, se ci è permesso esprimerci, che ci sia qualcosa di “exaggeratum” in tutto ciò, come disse dalle pagine di questa rivista Bontadini. Una cosa è infatti dire che la sostanza del tomismo è valida ed attuale, altra cosa dire che il tomismo come sostanza è una filosofia in sé completa ed irriformabile.

37 Cfr. Recherches dans la foi, ed. Beauchesne, Paris 1979, pp. 125 segg. (tr. it. Sulla filosofia cristiana, in Spirito e libertà, Jaca Book, Milano 1980, pp. 317-342) e Dialogue théologique, St. Maximin 1947 (raccolta di articoli polemici tra i domenicani neotomisti e i gesuiti della “Nouvelle théologie” sul presunto soggettivismo relativistico di questi ultimi).

38 Anche se il modo stesso di intendere tale spessore è diverso: Maritain insiste sull'autonomia della natura (e delle sue leggi), l'impostazione teilhardiano-delubachiana sulla singolarità concreta, irriducibile all'universale.